Si era detto che la Nato era ormai in stato comatoso. Altri – sul versante opposto dell’Atlantico – avevano addirittura paventato la possibilità di dismetterla in nome del disimpegno americano, del fervore isolazionistico e della chiusura al resto del mondo, per coltivare il ritorno degli Usa a una grandezza mai venuta meno. Altri ancora hanno pensato di approfittare di questa presunta condizione di debolezza dell’Alleanza Atlantica per tentare di spostare l’asse geopolitico verso Oriente. Tutti loro avevano fatto male i conti, perché la Nato non solo è riuscita a risorgere e a dimostrare di essere ancora centrale nella scena internazionale, ma si è addirittura rafforzata.
Il vertice di Madrid appena conclusosi passerà veramente alla storia, come ha detto Stoltenberg: verrà ricordato come il giorno in cui l’Occidente ha ripreso coscienza di sé stesso, del suo ruolo nel mondo e, in definitiva, di quello che è il suo destino: essere roccaforte e faro di libertà contro la minaccia della tirannide.
Finalmente, abbiamo ben chiari quali sono i nostri antagonisti, come reagire alla loro offensiva e quali devono essere gli obbiettivi di lungo periodo. Ma soprattutto abbiamo capito una cosa fondamentale: che le sfide dinanzi alle quali ci pone la nuova situazione geopolitica ed economica possono essere affrontate solo attraverso una riforma complessiva delle nostre strategie e dell’assetto stesso dell’Alleanza.
La Russia viene finalmente definita per quello che è realmente: la minaccia più grande alla pace, alla sicurezza e alla stabilità mondiale. Difficile dare una definizione diversa di una super-potenza fascista che, in preda al delirio sciovinista, non avendo altra forza oltre a quella delle armi, pensa di poter rovesciare l’ordine internazionale con l’uso della forza e che ha dimostrato di avere delle mire espansionistiche sull’Europa, secondo il progetto “eurasiatista”. La nazione che un tempo era considerata un “partner strategico” diviene ora il nemico numero uno. Se non altro, questa è la conferma del fatto che non è mai troppo tardi per rimediare ai propri errori e tornare sui propri passi. Perché tendere la mano alla Russia è stato un errore. C’è da chiedersi cosa abbia spinto i leader occidentali del passato a pensare di potersi veramente fidare di un regime come quello di Mosca e del suo leader. Contrariamente a quanto troppo spesso si sente dire – probabilmente per non autoassolversi dalla propria colpevole dabbenaggine – Putin non è cambiato negli ultimi anni: semplicemente ha saputo mascherare bene la sua vera natura, dal momento che mentre noi eravamo occupati a coinvolgerlo nelle dinamiche geopolitiche di nostra pertinenza e a vincolarci energeticamente alle esportazioni russe, lui era impegnato a rafforzare il suo potere in patria (tra ricatti, omicidi, intimidazioni, manipolazione delle masse e repressione del dissenso) e a cercare di capire quando fare la prima mossa per destabilizzare la nostra civiltà e impossessarsi anche del nostro mondo, come aveva fatto con la Russia. Forse non bastano nemmeno l’avidità – come detto recentemente da Margrethe Vestager – o l’ingenuità a spiegare tanta leggerezza, né tantomeno a giustificarla. Cionostante, l’importante è che uno dei peggiori equivoci della storia recente sia stato chiarito e che il principio per il quale non si fanno affari, non si negozia e non si stringono partnership coi dittatori anti-occidentali sia stato finalmente stabilito. Ora aspettiamo di vederlo applicato in concreto.
La risposta della Nato all’aggressività della Russia è di quelle che non lasciano spazio a dubbi o ambiguità. Si è deciso di aumentare esponenzialmente le truppe sul fianco Est dell’Alleanza, portando le unità dalle quarantamila attuali a trecentomila. All’Italia pare sia stato affidato il comando dei soldati di stanza in Romania e in Bulgaria. In più, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato di essere pronto a inviare in Italia e in Germania altri militari americani e un sistema di difesa aereo di ultima generazione. In più, il Pentagono ha deciso di stabilire un comando permanente della Nato in Polonia e di inviare altri F-35 nel Regno Unito. Questa decisione – come ha poi illustrato il premier Draghi – non rappresenta un’escalation della tensione con la Russia, ma solo una maggior sicurezza che gli Stati Uniti e l’Alleanza intendono offrire ai loro partner strategici in Europa, specialmente quelli maggiormente minacciati dalla Russia.
Mosca commenta le decisioni della Nato parlando di “atto destabilizzante” che di sicuro porterà a ulteriori tensioni. Neanche se la tensione venutasi a creare fosse il risultato delle scelte dell’Occidente e non delle politiche scioviniste del regime russo, dei suoi atti di prepotenza.
La Cina viene invece definita come la maggiore sfida che la Nato sarà chiamata a fronteggiare in futuro. Una definizione secondo alcuni abbastanza vaga. In che senso “sfida”? Dal punto di vista economico? O abbiamo ragione di temere che possa aprirsi un altro fronte di guerra? Di sicuro, bisogna essere pronti anche a una simile evenienza. Anche la Cina ha iniziato a “mostrare i denti” e, come la Russia, nutre ambizioni egemoniche e imperialiste.
Non si tratta solo di Taiwan – che comunque è di importanza strategica, se consideriamo che il 60 percento delle componenti tecnologiche dei nostri apparecchi elettronici vengono prodotti in quell’isola – ma della sicurezza del mondo libero. La Russia è la minaccia che bisogna fronteggiare nell’immediato, ma la Cina potrebbe rivelarsi anche più pericolosa nel medio-lungo periodo: semplicemente perché più ricca, tecnologicamente avanzata e armata della Russia (se escludiamo l’armamento nucleare). Fa riflettere il fatto che la marina militare di Pechino sia arrivata a disporre di più navi della U.S. Navy. Una cosa simile non può non destare preoccupazione, proprio come i proclami sempre più aggressivi e belligeranti di Xi Jinping e la decisione cinese di aumentare la produzione di testate nucleari. Non si può stare tranquilli e rilassarsi più di tanto con una super-potenza autocratica che sta colonizzando economicamente e tecnologicamente moltissime aree del mondo, che ora ha deciso di riarmarsi e di perseguire aspirazioni di dominio e di riassetto globale, di “esportare il modello cinese” in tutto il mondo e di guidare una coalizione anti-occidentale formata dai Paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), al quale hanno già chiesto di aderire anche Iran e Argentina. Bisogna reagire e monitorare la situazione. Bisogna essere pronti a intervenire in ogni momento e a difendersi anche da questa minaccia.
La reazione cinese alle decisioni prese a Madrid non si è fatta certo attendere. Pechino accusa la Nato di essere la vera nemica della pace mondiale, di fomentare tensioni e di avere una mentalità da Guerra Fredda. Tuttavia, non è l’Occidente a voler imporre un modello autoritario al resto del mondo, come Xi Jinping ha più volte dichiarato di voler fare. È un inganno pensare che la pace si costruisca sulla base del dialogo – come sostengono i cinesi – perché questo, affinché sia proficuo e porti a dei risultati apprezzabili, presuppone la condivisione di determinati principi fondamentali. Perché quelli occidentali dovrebbero essere considerati migliori di quelli cinesi? Basta guardare ai risultati. Noi siamo democrazie che, senza coercizione e in maniera del tutto naturale e spontanea, hanno raggiunto benessere, libertà ed elevatissimi livelli di civiltà e di progresso. Anche la Cina, bisogna ammetterlo, ha compiuto dei passi avanti notevoli negli ultimi anni da questo punto di vista, ma attraverso la forza, l’oppressione, la costrizione, lo sfruttamento del lavoro, la concorrenza sleale e un’economia “drogata” dall’intervento statale. Mettere sullo stesso piano Occidente e Cina è come equiparare due uomini egualmente ricchi, ma di cui uno si è arricchito con il duro lavoro e l’altro con i raggiri, con l’usura o coi furti. Si capisce bene che tra le due cose non può esistere alcun paragone e che solo uno dei due ha ragione di pretendere rispetto.
Se le minacce e le sfide con le quali la Nato dovrà confrontarsi in futuro saranno di portata globale, allora anche la Nato deve riformarsi e darsi un nuovo assetto, intraprendere un “ nuovo corso”: non più alleanza militare esclusiva tra Stati Uniti ed Europa finalizzata a contenere Mosca, com’era al principio, ma alleanza militare e di civiltà, presente a livello globale e finalizzata ad arginare e a contenere il germe della tirannide ovunque sia presente, per evitando che si diffonda e difendendo la centralità dell’Occidente nelle dinamiche geopolitiche ed economiche globali, secondo il principio dell’unipolarismo. Per questa ragione, ora la priorità è allargare l’Alleanza e stabilire nuove partnership, anche al di fuori dei confini occidentali.
Il primo obbiettivo è stato raggiunto con l’ingresso di Svezia e Finlandia, di vitale importanza dal punto di vista strategico, dal momento che questo va a rafforzare l’area scandinava dell’Alleanza, nonché l’area baltica, notoriamente oggetto delle mire espansionistiche del Cremlino. Paradossalmente, la guerra anti-Nato di Putin ha sortito effetti opposti a quelli che l’autocrate di Mosca aveva sperato: voleva tenere l’Alleanza lontana dai suoi confini e ora condivide con essa più di mille chilometri di frontiera finlandese che vanno ad aggiungersi a quella che già condivideva con le Repubbliche Baltiche; voleva impedire all’Ucraina di avvicinarsi troppo alle logiche atlantiste e alla mentalità occidentale e il presidente Zelensky ha partecipato da remoto al vertice di Madrid – dopo aver ottenuto la candidatura all’ingresso nell’Unione Europea – ed è ragionevole pensare che, non appena la guerra sarà vinta e i russi saranno stati ricacciati entro i confini internazionalmente riconosciuti del loro Paese, Kiev sarà la prossima a unirsi alla Nato (o quantomeno a stabilire una solida partnership con la medesima); voleva ricostituire la “Trinità Russa” annettendo l’Ucraina senza colpo ferire e la resistenza patriottica ucraina si è dimostrata determinata a combattere fino alla fine, grazie anche all’Occidente, i cui principali leader hanno ribadito, sia al G7 che al vertice Nato, che continueranno a sostenerla e ad armarla fin quando ce ne sarà bisogno, vale a dire fin quando i russi non capitoleranno; voleva ridimensionare il ruolo globale dell’Alleanza Altantica e, invece, lo ha rafforzato e lo rafforzerà ancora.
Ovviamente, ci sono gli immancabili “fustigatori” – che però, stranamente, assumono atteggiamenti e toni savonaroliani solo quando si tratta di America e di Europa – i quali sottolineano che per vincere le resistenze iniziali della Turchia di Erdogan sia stato necessario “sacrificare sull’altare del compromesso” i curdi del Pkk, ai quali la Svezia e la Finlandia davano rifugio e sostegno. Bisogna precisare anzitutto che il Pkk è un’organizzazione paramilitare di stampo comunista che la Ue già riconosceva come terroristica. Tale narrazione è comunque smentita dalle dichiarazioni del ministro degli Esteri finlandese, che rassicura circa il fatto che né Helsinki, né Stoccolma verranno meno ai principi che hanno difeso in questi anni: semplicemente si è scelto di essere più collaborativi con le autorità turche in materia di estradizione nel rispetto dei diritti umani, di fermare i finanziamenti a questo tipo di organizzazioni e di rivedere l’embargo sulla vendita di armi ad Ankara.
Questo significa che non esistono ragioni per affermare che la Nato ha “cambiato pelle” e ha dismesso il suo attaccamento ai principi, ai valori e agli ideali liberaldemocratici e umanitari in nome degli interessi e delle strategie militari. In questo modo, la Nato ha potuto espandersi e rafforzarsi e potrà garantire ancora meglio la sicurezza delle democrazie liberali in un contesto in cui, è bene tenerlo a mente, non è la Turchia a inviare carri armati in giro per l’Europa, a minacciare attacchi nucleari o a voler colonizzare il mondo occidentale. I curdi hanno combattuto l’Isis al fianco della coalizione occidentale? Anche Putin, se è per questo: o almeno è quello che ha finto di fare, dato che l’unico scopo del suo intervento in Siria era quello di tenere Assad al potere e di blindare l’area siriana impedendo che finisse sotto l’influenza americana. Questo per dire che non basta convergere occasionalmente su determinate strategie o interessi geopolitici per potersi dire alleati o per solidarizzare in maniera così stretta. La collocazione naturale di Svezia e Finlandia è nella Nato, ed è giusto lasciare che la natura segua liberamente il suo corso. Per il resto, le rassicurazioni delle due nazioni scandinave circa il fatto che non saranno violati i diritti di nessuno e che si continuerà a fare riferimento al diritto internazionale e alle leggi dei due Paesi, dovrebbero bastare a placare le polemiche.
Altra critica priva di fondamento è che, con le decisioni di Madrid, la Nato avrebbe di fatto “assorbito” completamente l’Unione Europea, ponendo in essere una sovrapposizione impropria tra le due cose e facendo sfumare il progetto – che sembrava aver ritrovato un certo slancio – di una difesa comune a livello europeo. Posto che il rafforzamento della Nato in Europa e la costituzione di un esercito europeo non si escludono a vicenda, bisogna considerare la cosa sotto due differenti punti di vista. Il primo ha a che vedere con la tempistica: la minaccia russa incombe adesso e richiede una risposta immediata. La costituzione di una difesa comune richiederebbe un certo periodo di tempo: per quanto si voglia accelerare sulla questione – cosa che l’Europa ha dimostrato di saper fare quando vuole, scavalcando le lungaggini burocratiche – non si farà mai abbastanza presto da mettere i cittadini del Vecchio Continente al sicuro entro tempi ragionevoli. Il rafforzamento della Nato in Europa è anche una garanzia in questo senso, perché da all’Europa il tempo e la protezione necessaria per organizzarsi in termini militari.
In secondo luogo, si dice spesso che l’Unione Europea sia necessaria per mettere i singoli Stati del Vecchio Continente nelle condizioni di poter esercitare un peso nelle dinamiche politiche globali: senza l’Europa saremmo “nani” in un mondo dove dominano i “giganti” e non avremmo la possibilità né di incidere in maniera significativa, né di competere economicamente. Rispetto al rafforzamento della Nato si applica un principio simile: è necessaria per rispondere adeguatamente alle sfide geopolitiche che, in futuro, saranno sempre più aspre e alle quali non saremmo in grado di rispondere da soli, non essendo l’Europa un soggetto federale, ma semi-confederale e assolutamente bisognoso di evolvere allo stadio successivo. Ci avviamo verso un mondo dove le tensioni e i conflitti saranno cosa all’ordine del giorno, per quanto possa essere spiacevole da pensare. L’era della “pace perpetua” data dalla globalizzazione è giunta al termine e si apre un’epoca caratterizzata dalla tensione e dallo scontro tra blocchi geopolitici per il primato mondiale in termini economici, culturali e militari. Se vogliamo essere all’altezza della situazione, allora non possiamo prescindere dal rafforzamento della Nato e della civiltà occidentale.
Per quanto riguarda, invece, le nuove partnership, è evidente che le prime a dover essere consolidate siano quelle nell’area del Pacifico: Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Anzi, per questi Paesi sarebbe meglio pensare a un vero e proprio ingresso nella Nato, dal momento che hanno dato prova di affidabilità e di lealtà all’Alleanza, per esempio contribuendo alla resistenza ucraina, sanzionando la Russia e unendosi al pattugliamento e alle esercitazioni anglo-statunitensi nell’area indo-pacifica. In più, Giappone e Corea del Sud sono tra i più esposti agli attacchi cinesi e russi: è notizia di questi giorni che i cacciabombardieri di Mosca e Pechino hanno accerchiato lo spazio aereo giapponese durante un’esercitazione. Un tentativo di intimidazione? Ovviamente si. Un tentativo che non può non avere una risposta rapida e altrettanto forte.
Un punto nevralgico è rappresentato dall’Africa. Come ha ricordato il premier Draghi al vertice del G7 citando un proverbio africano, non si può pretendere che i “piccoli” prendano parte agli scontri tra i “giganti” o che si schierino apertamente in favore di chi difende la legalità internazionale e i diritti umani, se ciò provoca loro dei danni collaterali estremamente seri. La decisione di invitare al G7, come osservatore, il presidente del Senegal Macky Sall, in qualità di presidente di turno dell’Unione Africana, e la decisione di aumentare i fondi per la cooperazione internazionale e lo sviluppo vanno proprio nella direzione indicata dal primo ministro italiano.
In futuro, quella africano diventerà una realtà con la quale l’Occidente dovrà necessariamente intensificare i rapporti e la collaborazione. È sufficiente pensare che, tanto la Cina quanto la Russia, sono già entrati in azione da molto tempo nel Continente Nero. Pechino sta stringendo rapporti di scambio economico e di cooperazione sempre più stretti coi principali Stati africani e sta costruendo delle vere e proprie città, delle enclavi cinesi, sul territorio di quei Paesi: al punto che, affermano alcuni analisti, tra non molto l’Africa sarà a tutti gli effetti una “proprietà” cinese. Mosca, dal canto suo, che all’economia preferisce sempre le armi, ha stretto dei partenariati militari con Paesi come la Repubblica Centrafricana, dove ha installato alcune basi e dove già i militari locali vengono addestrati da quelli russi. Non possiamo rischiare che i due principali antagonisti del mondo libero mettano le mani su un Continente estremamente povero e demograficamente più popoloso dell’intero Occidente. Il motivo? Perché nessuno ci garantisce che russi e cinesi non useranno questo a loro vantaggio per destabilizzare l’Europa attraverso l’immigrazione e che non faranno dell’Africa una gigantesca base militare ai confini del Vecchio Continente. Putin sta già dimostrando come l’immigrazione possa essere usata come una vera e propria arma di ricatto e pressione geopolitica: quale altro scopo può avere il blocco delle navi ucraine cariche di derrate alimentari destinate perlopiù all’Africa, se non quello di scatenare ondate migratorie senza precedenti che sconvolgerebbero il già precario equilibrio socio-economico e politico degli Stati europei?
Un partenariato della Nato (o euro-americano) coi Paesi africani maggiormente occidentalizzati o interessati a una simile forma di cooperazione (soprattutto nel Maghreb, altra zona di fondamentale importanza per la sicurezza e la stabilità dell’area mediterranea) presenterebbe un triplice vantaggio: potremmo difenderci rispetto all’espansionismo russo-cinese e arginarlo anche nel Continente Nero; si potrebbe risolvere l’annoso problema dell’immigrazione incontrollata grazie alla possibilità di stipulare più facilmente degli accordi per il contenimento dei flussi e per i rimpatri; si potrebbe favorire la democratizzazione e il rispetto dei diritti umani in realtà – come quelle africane – dove le condizioni socio-culturali e politiche sono anche peggiori di quelle economiche.
Questo non è un ritorno alla Guerra Fredda e non c’è nessuna nuova “cortina di ferro” (o “cortina d’acciaio” come l’ha definita la rivista di geopolitica Limes). C’è senz’altro una replica della divisione del mondo in due principali blocchi: da una parte l’Occidente e i suoi alleati e dall’altra l’asse russo cinese con i suoi sodali, perlopiù i Paesi emergenti desiderosi di rivedere l’assetto globale in senso multipolare per poter “pesare” di più. Tuttavia, se ai tempi della Guerra Fredda tale divisione era di natura politico-economica – democrazie capitaliste contro regimi comunisti – allo stato attuale delle cose è evidente che la tensione tra le due sfere d’influenza ha assunto una dimensione che trascende il politico e l’economico per assumere dei risvolti nettamente culturali. Questo non è la lotta tra due modelli politico-economici, ma tra due modelli politico-culturali. Da una parte le società libere o aperte, figlie di una concezione illuministica, con la loro cultura fondata sul rispetto dei diritti della persona, sulla tolleranza, sull’accettazione della diversità di scelte, inclinazioni, valori, opinioni, credenze e aspirazioni, caratterizzate da un individualismo più o meno marcato e nelle quali la ragione e la legge assurgono a unici criteri normativi dell’azione umana; dall’altra le società autoritarie o chiuse, figlie di una visione sostanzialmente “neo-medievale”, basate cioè su una concezione comunitaria e organicista che concepisce l’individuo come un semplice “mattoncino” di un grande mosaico in cui tutto deve concorrere al mantenimento di un ordine superiore, naturale e immutabile e in cui la libertà e i diritti dell’individuo sono subordinati ai fini stabiliti dall’autorità: da qui l’intolleranza, la stagnazione morale e culturale, l’attaccamento irrazionale alla tradizione nazionale come fonte di normatività, l’orrore per la diversità e la paura di vedere la propria identità e i propri modelli “contaminati” da ciò che è estraneo.
Scontro di civiltà di huntingtoniana memoria, dunque? No, si tratta di uno scontro per la civiltà. Qui non ci sono – a differenza di quanto teorizzato da Samuel Huntington, secondo la logica del “relativismo culturale” – due o più civiltà che si affrontano; ma una sola civiltà che si trova a dover fronteggiare un mondo primitivo e a dover combattere per non essere sopraffatta.
In fin dei conti, c’è un motivo per cui la “fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama non è arrivata e, al contrario, sembra quasi che le lancette dell’orologio siano tornate indietro di qualche decennio: nel momento in cui la civiltà occidentale ha sostanzialmente rinunciato al suo ruolo nel mondo e ha preferito illudersi di poter convivere pacificamente con la barbarie, invece di combatterla e di fronteggiarla coerentemente coi propri valori e i propri ideali; nel momento in cui l’Occidente ha pensato di potersi comportare da “erbivoro” in mezzo a belve feroci che aspettavano solo l’occasione giusta per azzannare; nel momento in cui ci siamo illusi del fatto che la pace potesse essere costruita solo sulle relazioni economiche e non sull’egemonia e sulla condivisione universale di determinati valori e ideali, siamo stati noi stessi ad aver posticipato la “fine della storia” teorizzata da Fukuyama. Si, le democrazie liberali hanno sconfitto le dittature comuniste, ma nessuna vittoria o conquista è eterna se non si protegge quello che si è ottenuto. La “fine della storia” non consiste tanto nel trionfo delle democrazie liberali sulle dittature o del capitalismo sul socialismo, ma nella capacità delle democrazieliberali, come del capitalismo stesso, di sapersi rinnovare costantemente, di adeguarsi alle circostanze, di essere sempre all’altezza delle sfide dei tempi e di proteggersi da ogni minaccia, reale o potenziale.
Prima di prendere coscienza del risveglio del fondamentalismo islamico in Medio Oriente e della sua pericolosità per la sicurezza globale abbiamo dovuto aspettare l’11 Settembre. Lo stesso errore l’abbiamo commesso con la Russia: prima di capire la serietà della minaccia alla pace e alla stabilità del Continente europeo e di tutto il mondo (e dire che Putin aveva iniziato a “ringhiarci” contro già dal 2007, quando a Monaco ammonì le potenze occidentali a non oltrepassare la “linea rossa”, cioè a non avvicinarsi troppo ai suoi confini e a non intromettersi negli affari del suo Paese) abbiamo dovuto attendere di vedere le città ucraine bombardate e distrutte, le fosse comuni e le deportazioni.
Questo ci fa capire come il primo passo verso una pace vera e duratura sia quello di essere sempre preparati a ogni evenienza e di non darla mai per acquisita definitivamente, nella consapevolezza che l’Occidente è l’unica parte di mondo capace di essere difensore e garante. La pace come la intendono altrove non è vera pace, ma rassegnazione passiva al male, all’oppressione e all’iniquità. Il mondo multipolare non è che la rinuncia, da parte delle democrazie liberali, a stare al centro della scena mondiale per lasciare che le tirannidi erodano progressivamente la loro influenza, fino a renderle irrilevanti e a confinarle in una specie di “riserva indiana”: sempre che abbiano la bontà di lasciarcela.
Si spera che l’Occidente abbia imparato dai suoi errori e che il prossimo Vertice Nato, in programma a Vilnius per l’anno prossimo, sia altrettanto soddisfacente e porti all’acquisizione di ulteriori alleati e partner strategici.
Gabriele Minotti
(Foto Ansa)