Marco Pannella definiva il pacifismo “la peste del nuovo secolo”, peggio del nazi-fascismo e del comunismo e, come loro, meritevole di essere bandito. Parole forti, se consideriamo che a proferirle fu uno dei leader italiani della lotta non violenta per l’affermazione dei diritti e delle libertà civili. Gli ha fatto eco, non più di qualche giorno fa, la sua storica compagna di battaglie, Emma Bonino, quando a chi le chiedeva spiegazioni relativamente alla scelta sua e del suo partito di appoggiare le forniture militari all’Ucraina, la parlamentare ha risposto candidamente: “Non sono una pacifista. Cerco di essere una non violenta quando è possibile.”

La non violenza, infatti, non ha nulla a che vedere col pacifismo: è una forma di lotta, non di renitenza o di rinuncia alla medesima; è opposizione metodologica alla violenza e alla coercizione, non una rassegnazione a esse. Si può, ovviamente, ritenere miope anche questa visione, la quale però conserva comunque una sua rispettabilità e una sua coerenza, diversamente dal pacifismo.

In questi giorni di conflitto, è opportuno porsi degli interrogativi sull’improvviso ritorno in auge di questa dottrina della non azione, sulla massiccia adesione a questa visione del mondo da parte di politici, intellettuali, giornalisti e di un settore rilevante dell’opinione pubblica. Non si tratta solo del timore circa lo scoppio della Terza Guerra Mondiale. Anzi, questa è probabilmente una delle ragioni secondarie. Dietro il proliferare di prese di posizione contrarie allo schieramento dell’Italia e dell’Europa al fianco della resistenza ucraina e contro l’invasione russa, come pure della linea di sostanziale co-belligeranza del nostro Paese e dell’Occidente, c’è molto di più.

Si tratta davvero di un’ideologia pestilenziale e totalitaria, di una visione del mondo capace di fare più morti delle stesse guerre. Aveva ragione Pannella nel dire che il pacifismo è equiparabile al nazi-fascismo e al comunismo: perché se queste due ideologie postulano la violenza e la coercizione come strumenti di lotta politica per il raggiungimento dei loro obbiettivi, il pacifismo è quell’ideologia che rende possibile la loro affermazione, poiché spinge a restare inerti, a non fare nulla per respingere l’offensiva delle ideologie totalitarie, a rassegnarsi passivamente all’idea di essere violati nei propri diritti e nella propria libertà. Il pacifismo è un’ideologia profondamente illiberale, nella misura in cui, pur di non ricorrere alla forza, dispone a non reagire quando la propria integrità è minacciata, lasciando così che i nemici della libertà vincano a mani basse e si prendano quello che vogliono.

Ci sono tre tipi di pacifismo, come stiamo vedendo anche in questo periodo, ciascuno dei quali con una precisa matrice ideologica e con delle sue finalità. Il primo è il pacifismo cattolico, che in nome dei valori evangelici proclama la necessità di “far tacere le armi” e di dialogare per giungere a una soluzione di compromesso e risparmiare vite umane. Il secondo è il pacifismo di estrema sinistra che, in ossequio alla tradizione comunista, odia l’Occidente e solidarizza con chi vorrebbe distruggerlo. Il terzo è il pacifismo dell’estrema destra, di stampo sovranista, populista e cattolico-integralista, che è quello più manieristico, in quanto dato dalla sola simpatia di questi gruppi e movimenti nei riguardi della Russia fascista e reazionaria di Putin.

Quanto alla prima forma di pacifismo, è quella che anima gli appelli di Papa Francesco e di buona parte del mondo cattolico a deporre le armi, a preferire il dialogo alla violenza e a ripudiare la logica del riarmo. C’è sicuramente una massiccia dose di ingenuità mista a idealismo in queste prese di posizione. Si può essere credenti o non credenti, ma ciò non esime, in nessuno dei due casi, dalla necessità di mantenere i contatti con la realtà. Bisogna capire che non viviamo in una specie di “Repubblica dei Santi”, ma in un mondo dove esistono anche i violenti e i prepotenti, ai quali non si può e non si deve mai “porgere l’altra guancia”. L’errore è proprio questo: pensare che non si debba rispondere alla violenza; che all’azione non debba corrispondere reazione uguale e contraria; che non esista differenza tra violenza a scopo offensivo e violenza a scopo difensivo.

Credere che la violenza si fermi in mancanza di una reazione è precisamente quello che rende possibile la vittoria dei malvagi e la sopraffazione dei giusti: la passività dell’aggredito è ciò che invoglia l’aggressore e che ne rafforza i propositi. Porgere l’altra guancia – a voler essere cinicamente obbiettivi – non interrompe la catena di violenza: serve solo a incitare chi ci ha schiaffeggiato a continuare a farlo. La forza del male è l’inerzia del bene. Certo, ci sono stati casi in cui non rispondere alla violenza ha portato a dei risultati concreti: ma Gandhi e Martin Luther King avevano a che fare, rispettivamente, con la democrazia britannica e con quella statunitense, non con una dittatura feroce e spietata come quella russa.

I testi sacri descrivono un mondo ideale, quello che dovrebbe essere se tutti seguissero determinati insegnamenti: ma si tratta di un mondo profondamente diverso da quello in cui viviamo. Bisogna ragionare e agire sulla base di ciò che esiste e di ciò che è, non di quello che sarebbe o che dovrebbe essere. Non è questo il mondo in cui si può sperare di osservare strettamente i valori evangelici senza essere calpestati. Non è un discorso di fede: si può benissimo essere persuasi della bontà di quei precetti pur ammettendo, per motivi di concretezza, l’impossibilità di applicarli a una realtà come quella in cui viviamo.

Quello che i “sant’uomini” avviluppati in bandiere arcobaleno si rifiutano di capire – e questa è una difficoltà che, invero, si riscontra nell’etica cattolica in generale – è che bisogna saper distinguere quello che è da quello che dovrebbe essere, il reale dall’ideale, i fatti dalle prescrizioni. Quando si viene aggrediti, la scelta è solo tra reagire o soccombere: non ci sono alternative. Se l’Ucraina e l’Occidente avessero scelto di “porgere l’altra guancia” non avrebbero ottenuto un ravvedimento da parte della Russia: le avrebbero solo facilitato le cose e l’avrebbero incoraggiata ad allargare la sua offensiva ad altre realtà. Avrebbero ottenuto l’effetto contrario, la violenza si sarebbe moltiplicata e si sarebbero già aperti altri fronti.

Questo ci fa capire quanto l’idealismo sia, il più delle volte, fuorviante. Gli idealisti dimenticano sempre che la realtà è ben diversa da quella che loro immaginano e auspicano e che, se è giusto che ciascuno si impegni per cambiare le cose, il primo passo da compiere è prendere atto della situazione e adattare i propri principi e i propri valori al contesto. Viceversa, quei principi e quei valori non solo si rivelano inutili, ma potrebbero addirittura condurre a un risultato opposto rispetto a quello auspicato.

Quando il pontefice definisce “vergognoso” il riarmo da parte dei Paesi Europei, dovrebbe indicare un’alternativa valida per garantire la sicurezza e la libertà dei popoli del Vecchio Continente rispetto alla minaccia russa. Il dialogo, risponderebbe Francesco. Dimenticando, però, che per dialogare bisogna essere in due e che da parte di entrambi ci devono essere sincerità e lealtà. Dimenticando che non si può e non si deve dialogare con chi, come Putin, ha dimostrato di avere dei profondi e radicati istinti criminali, di essere un bandito, uno della cui parola e delle cui promesse non ci si può fidare. Senza contare che l’uso delle armi è perfettamente lecito – anche per l’insegnamento cristiano – se lo scopo è difendere i più deboli dai soprusi o conservare la propria integrità.

Ancora peggio, quando il pontefice – auspichiamo per un eccesso di ecumenismo – dice di comprendere le ragioni per cui la Russia si è sentita minacciata dall’avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente e dall’allargamento della Nato verso Est, quando in realtà la stessa Russia, dall’enclave di Kaliningrad, ha puntato per prima le sue testate contro le principali città europee e quando sono stati proprio i Paesi dell’Europa Orientale a voler entrare nella Nato per mettersi al sicuro dall’espansionismo russo. La storia della “minaccia occidentale” è l’ennesima mistificazione del regime putiniano: a cui, però, fin troppi, incluso il Papa, sembrano credere. La verità è che la Russia teme il “contagio occidentale” dal punto di vista politico e culturale: per questo non tollera di avere una democrazia liberale ai suoi confini. Quello che veramente spaventa Putin è l’idea che la cultura e le istituzioni liberaldemocratiche dell’Occidente penetrino e si affermino nel suo Paese, ponendo fine al suo regno di terrore.

Eppure, lo stesso Papa Francesco si è sincerato dell’impossibilità di un dialogo proficuo col mondo russo, quando ha cercato di fare pressioni sul patriarca di Mosca, Kirill, per la fine dell’offensiva. Per tutta risposta, il “cappellano di Putin” non solo ha ignorato l’appello del pontefice, ma ha benedetto la guerra scatenata dal suo figlio spirituale, in quanto lotta “metafisica” contro quell’Occidente “corrotto, pervertito e schiavo della lobby gay”. Continuare a credere che ci siano i presupposti per un’intesa con questi personaggi, con questo mondo intriso di fascismo, autoritarismo e fanatismo religioso, è un’ingenuità tanto quanto lo è ritenere che si possa o si debba dialogare coi terroristi islamici o con le cosche mafiose.

La seconda forma di pacifismo è quella della sinistra radicale. Bisogna però operare una distinzione tra l’approccio dell’estrema sinistra “tradizionale”, rimasta legata alla mitologia sovietica e alle logiche anti-americane; e quello dell’estrema sinistra “libertaria”, radicata nella concezione sessantottina e nella contestazione. Quanto alla prima, è ovvio che le prese di posizione come quelle dell’Anpi in occasione della Festa della Liberazione – che hanno suscitato non poco sconcerto e indignazione – o delle sigle sindacali come la Cgil, tradiscono il fatto che quella parte di sinistra non è ancora riuscita a smaltire del tutto la “sbornia sovietica” e ancora si nutre delle suggestioni anti-americane. La diffidenza nei riguardi dell’Occidente a guida statunitense deriva probabilmente dal fatto che proprio l’immediato avvicinamento dell’Italia agli Stati Uniti, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, impedì ai comunisti di fare di questo Paese un regime vicino a Mosca. L’obbiettivo dei comunisti, infatti, non fu mai la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo per il ristabilimento della democrazia, ma per l’instaurazione di un’altra dittatura. Potremmo addirittura spingerci ad affermare che i partigiani comunisti non combatterono affatto per l’Italia, ma per l’Unione Sovietica. Del resto, la “nazione” è una “sovrastruttura borghese”: quello che conta è “unire il proletariato di tutto il mondo”. Se fallirono nel tentativo di trasformare questo Paese in una sorta di “Bulgaria del Mediterraneo”, ciò fu dovuto, in larga misura, all’influenza americana.

A questo proposito, bisogna ricordare che il pacifismo, in Italia, fu proprio un’invenzione dei comunisti sul finire degli anni Quaranta, quando tentarono di riconvertire la resistenza al nazi-fascismo in resistenza all’atlantismo. Lo stesso Togliatti definì la costituzione della Nato, nel 1949, un atto di guerra, ravvisando nella politica internazionale dell’Urss una garanzia di pace e di indipendenza dei popoli. In nome di tali principi, i comunisti italiani appoggiarono le rivoluzioni e le insurrezioni armate in tutto il mondo e giustificarono le aggressioni militari compiute dai sovietici ai danni dei Paesi dell’Europa Orientale. Nulla sembra cambiato da allora.

Questo è il motivo per cui gli eredi diretti del Pci imputano alla Nato la responsabilità di questa guerra, a causa del suo allargamento verso Est che avrebbe fatto sentire in pericolo la Russia. Ecco perché accusano l’Ucraina di essere un coacervo di neonazisti: ciò che non le perdonano è il suo rifiuto di tornare sotto l’egida russa e la sua volontà di avvicinarsi alle democrazie occidentali. Giustificano l’invasione russa dell’Ucraina, proprio come fecero con quella dell’Ungheria o della Cecoslovacchia: perché la Russia ha il diritto e il dovere di impedire che l’Occidente americanocentrico si rafforzi ed estenda la sua influenza. Per costoro, le guerre sono sempre occidentali e la pace è sempre russa, mentre ogni anelito alla libertà nazionale e la vicinanza agli Stati Uniti, sono i segni peculiari di una certa tendenza al fascismo. Poco importa che l’unico vero Stato fascista che minaccia la pace e la stabilità mondiale sia proprio la Russia: narrare una “controrealtà” è da sempre una delle specialità dei marxisti.

Per quanto concerne invece la sinistra libertaria e post-sessantottina, il loro ripudio della guerra è, più che altro, un ripudio della civiltà occidentale. Per usare le parole di uno dei principali ideologi del Sessantotto, Herbert Marcuse, essa è all’origine allo sfruttamento capitalistico, dello schiavismo, del razzismo, del nazionalismo, del fascismo, del patriarcato e di ogni sorta di sistema fondato sull’abuso e sulla sopraffazione. Da qui, il fascino per il mondo non occidentale, identificato come alternativo e come portatore di liberazione e di rinnovamento.

Intanto, noi siamo stati capaci di emendarci dai nostri errori e abbiamo progressivamente costruito la civiltà più libera e rispettosa dei diritti umani che il mondo abbia mai conosciuto. Al contrario, la Russia, la Cina e le nazioni terzomondiali che una parte della sinistra prende a modello di riferimento, non solo non hanno compiuto alcun avanzamento significativo in questo senso, ma in alcuni casi hanno addirittura intrapreso un percorso a ritroso. Infatti, è nelle autocrazie come quella russa o quella cinese – come anche nelle teocrazie islamiche e in gran parte dei Paesi africani – che si perseguitano le minoranze sessuali, etniche, politiche e religiose, che si respira un clima di oppressione e di bigottismo, in cui è vietato pensare, parlare e vivere come si ritiene più opportuno, se ciò non è conforme ai fini indicati dal regime.

Peccato che l’Occidente abbia così tanti “figli ingrati”, che troppo spesso dimenticano che è solo in questa parte di mondo che ciascuno può liberamente disporre della propria vita, dei propri pensieri e delle proprie condotte con l’unico limite di non recare danno ad altri. Altrove le cose funzionano in maniera molto diversa. Difficilmente gli “arcobalenisti” potrebbero indire marce per la pace in quella Russia in cui chi critica le “operazioni militari speciali” indette dal governo rischia fino a quindici anni di carcere.

Per quanto riguarda invece il fascino che il regime russo esercita sulla destra sovranista, populista, antisistema e ultra-cattolica, il motivo di tale affinità è fin troppo chiaro. La Russia è l’alternativa per eccellenza alla democrazia liberale, giudicata responsabile della decadenza politico-economica ed etico-culturale dell’Occidente. Nelle autocrazie come quella russa, l’unico fine dell’azione e degli sforzi individuali è la grandezza della nazione e tutto è subordinato a questo scopo; l’economia è perlopiù controllata dallo Stato e sostanzialmente autarchica; l’autocrate conserva il potere facendo leva sulle paure e sulle credenze irrazionali della popolazione; la tradizione religiosa esercita un’influenza notevole sulle scelte politiche del regime ed è funzionale alla legittimazione morale del medesimo. La Russia, in altre parole, è il Paese dove tutti i sovranisti, i populisti e i fondamentalisti vorrebbero vivere. Di conseguenza, è evidente che vorrebbero vedere Putin schiacciare l’Ucraina e riuscire a imporre la sua linea reazionaria a tutti i popoli liberi. Il loro problema, non è tanto l’Occidente, ma l’ordine liberaldemocratico in sé stesso che, secondo il loro modo di vedere le cose, ha corrotto e indebolito questa parte di mondo.

Tutto questo ci fa capire quanto pernicioso sia il pacifismo; quanto sia viziato da visioni e concezioni assai meno nobili di quello che si vorrebbe far credere; quanto, il più delle volte, non sia che un pretesto per giustificare eticamente una scelta – come l’appoggio al regime russo e alla sua violenza – che altrimenti non avrebbe giustificazioni. Costoro dicono di essere favorevoli alla pace e alla soluzione diplomatica del conflitto russo-ucraino: ma intendono dire di essere a favore di Putin, della sua guerra all’Ucraina e a tutto il mondo libero. Ciò che li spinge al pacifismo non è tanto una scelta di carattere morale, ma il furore ideologico e la volontà di veder trionfare e dilagare la tirannide in odio all’ordine liberaldemocratico.

Si, il pacifismo è indubbiamente peggio della guerra: perché è meglio combattere col rischio di perdere tutto, pur di conservare la libertà e la dignità umana che al suo esercizio è inscindibilmente connessa, piuttosto che lasciarsi sopraffare ed essere costretti a vivere in catene. Se sono le catene che i pacifisti vogliono, allora che le accettino per sé stessi: ma non abbiano la pretesa di imporle ad altri. Se, per qualsivoglia ragione, odiano l’ordine democratico e subiscono il fascino degli autocrati, si trasferiscano in Russia, in Cina, in Corea del Nord o in un luogo a loro congeniale: ma lascino agli altri il diritto di difendersi e di fare fronte comune per la causa della libertà. Se ai pacifisti piace vivere di sogni e di belle speranze, che si accomodino: ma non interferiscano con le scelte e le determinazioni di chi ai sogni e alle utopie preferisce la realtà.

Gabriele Minotti

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