Il conflitto in Ucraina non sembra destinato a finire nel breve periodo. Non perché – come certuni sostengono – questa guerra faccia comodo a qualcuno come gli Stati Uniti, ormai diventati il capro espiatorio di una parte di Occidente affetta da “oicofobia” (termine coniato dal filosofo inglese Roger Scruton), che odia e disprezza il mondo libero, al punto da ridursi a essere la “sirena” dei suoi nemici, come il dittatore russo Vladimir Putin. Semplicemente, non ci sono i presupposti perché questa guerra possa giungere presto al termine, magari con un negoziato.

Non si può pretendere che gli ucraini depongano le armi; che si rassegnino a essere sopraffatti dai russi; che accettino l’idea di perdere quella libertà faticosamente riconquistata neanche un trentennio fa per tornare a essere uno stato-satellite di Mosca che vuole ricostituire una sua sfera d’influenza; o anche solo che si lascino portare via interi pezzi di territorio, oltretutto tra i più ricchi.  Tantomeno si può chiedere agli occidentali – come pure in molti hanno fatto – di disinteressarsi della cosa; di restare a guardare; di evitare di lasciarsi coinvolgere dal conflitto o quantomeno di tenere un basso profilo, astenendosi dall’inviare armi alla resistenza ucraina e dall’isolare economicamente e politicamente la Russia. Come ha giustamente detto il premier Mario Draghi, non ci si può voltare dall’altra parte. Dinanzi all’aggressione e alla prepotenza non si può restare indifferenti: si ha il dovere morale di reagire e di schierarsi dalla parte di chi subisce un’angheria e versa in una situazione di pericolo; di assisterlo con ogni mezzo e di aiutarlo a respingere il suo aggressore. Inoltre, nulla incoraggia i prepotenti come l’impunità: perché da ciò scaturisce la certezza di passarla sempre liscia e, di conseguenza, la tendenza a ripetere all’infinito le loro malefatte.

Se c’è qualcuno che non vuole la pace quello è proprio Putin. Chi vuole la pace non inizia una guerra, né minaccia di protrarla fin quando non avrà ottenuto quello che vuole. Chi vuole la pace non aggredisce. Quanta ingenuità – o malafede – nelle parole di chi dice che la colpa dell’escalation è delle intemperanze verbali di Biden o dell’intransigenza di Zelensky. Biden ha detto solo la verità definendo Putin un macellaio e accusandolo di volere un genocidio, dal momento che quella che all’inizio era la “denazificazione” (termine che ha avuto un significato sempre e solo per Putin, dal momento che nessuno si è accorto delle tendenze hitleriane del governo di Kiev) ora è diventata “deucrainizzazione”: ne parlano le principali testate russe, le più vicine al Cremlino. Si tratta della cancellazione della lingua, della cultura, della storia dell’Ucraina. Cos’è questo, se non un proposito genocida? Perché un genocidio abbia luogo non è necessario eliminare fisicamente un popolo (sebbene se le stragi contro i civili da parte delle truppe russe lascerebbero presagire anche questo): basta anche solo distruggerne il patrimonio culturale, l’identità, la memoria, il ricordo. Quanto a Zelensky, è il leader di un Paese che è stato invaso, violato, distrutto: come ci si possa aspettare mitezza e malleabilità, invece che livore, è cosa che costoro dovrebbero spiegarci, magari provando a immedesimarsi nel presidente ucraino e chiedendosi cosa farebbero al suo posto.

L’unico colpevole, di questa guerra, come del suo aggravamento e della sua prosecuzione, è solo Vladimir Putin: lui, con le sue manie di grandezza; lui, con le sue paranoie; lui, che da inguaribile reazionario sogna il ritorno del suo Paese ai fasti zaristi; lui, che da fascista non conosce che la violenza e l’intimidazione come modo di relazionarsi con gli altri; lui, che si crede (e viene creduto, anche fuori dai confini russi) investito della missione di redimere l’Occidente corrotto dalla sua stessa libertà. Nel caso non fosse ancora chiaro, Putin non ha intenzione di fermarsi all’Ucraina. Non è riuscito a dividere e a mandare in frantumi l’Europa coi suoi burattini sovranisti, proprio come non è riuscito a riportare Kiev sotto l’orbita di Mosca servendosi dei vari Janukovyc e Bojko: per questo, nel malaugurato caso in cui dovesse spuntarla in Ucraina, non c’è dubbio che tenterebbe di sovvertire con la forza anche l’ordine europeo.

La reazione occidentale all’invasione russa dell’Ucraina non ha solo lo scopo di fornire assistenza a un popolo ingiustamente aggredito e di aiutarlo a difendersi: è anche un segnale che il mondo libero ha voluto inviare al Cremlino e, tramite esso, all’altra grande autocrazia che minaccia la pace e la stabilità mondiale: la Cina, che è la principale sodale della Russia putiniana. Il segnale è che l’Occidente non intende restare a guardare i regimi illiberali che estendono la loro sfera d’influenza: al contrario, intende lavorare al loro contenimento e al loro depotenziamento. Se non è più tempo di parlare di “regime change” – che forse suona poco diplomatico, troppo legato alle logiche neoconservatrici ed eccessivamente soggetto alle accuse di “imperialismo” da parte dei detrattori degli Usa – si può senz’altro impedire che le potenze autocratiche si rafforzino e arrivino a costituire un pericolo per le democrazie. In effetti, a coloro che rimproverano agli americani di aver fatto altrove quello che i russi vorrebbero fare ora in Ucraina, si risponde semplicemente dicendo che un conto è rovesciare un regime dittatoriale per sostituirlo con una democrazia; discorso completamente diverso è rovesciare un governo democratico per instaurare al suo posto un governo non democratico e collaborazionista, come vorrebbe Putin.

Il motivo di tale differenza si comprende facilmente: oltre alla differenza morale tra democrazia e autocrazia – data dal fatto che nella prima si vive liberi e con delle garanzie relative al godimento dei propri diritti fondamentali, mentre nella seconda no – c’è anche una sostanziale diversità in termini di equilibrio e di stabilità internazionale. Le democrazie liberali, si sa, non portano avanti una politica estera aggressiva, cercano di mettere mano alle armi meno possibile e non si combattono mai tra loro: le uniche missioni militari che abbiamo intrapreso finora hanno avuto unicamente lo scopo di neutralizzare minacce alla pace mondiale o di ristabilire un regime di pieno godimento dei diritti umani in realtà dove questi subivano costanti violazioni. Le autocrazie, al contrario – come la Russia sta dimostrando – presentano una forte propensione a risolvere le controversie con l’uso della forza; ad assoggettare le nazioni libere e a esternalizzare negativamente il costo delle loro politiche sui vicini di casa: che è anche il caso russo-ucraino, dal momento che lo stesso Putin ha ammesso di aver invaso l’Ucraina anche per assicurarsi che non aderisse mai alla Nato e per evitare di avere, in questo modo, le armi occidentali ai suoi confini. Ne consegue che le autocrazie sono un pericolo per la pace e per la stabilità: di un area – se si tratta di piccoli Paesi, magari del Terzo Mondo, economicamente e politicamente poco rilevanti – o del mondo intero – se si parla di super-potenze come la Russia o la Cina. Parafrasando Luigi Einaudi, è un dovere delle democrazie evitare che “il germe della tirannia dilaghi”. Il che vuol dire, rendere le autocrazie inoffensive e impedire loro di fare danni, almeno al di fuori dei loro confini.

A partire da questo principio è possibile formulare un’ipotesi su quello che potrebbe essere il futuro delle relazioni internazionali. Non sappiamo quanto durerà ancora la guerra in Ucraina, né se si trasformerà in una guerra mondiale nel momento in cui la Russia decidesse di aumentare il livello di violenza o di impiegare armi proibite dalle convenzioni internazionali e l’Occidente rispondesse con un intervento diretto delle forze Nato. Quello che, invece, possiamo affermare con una certa sicurezza è che il conflitto in Ucraina è solo l’inizio, il primo anello di una lunga catena. I prossimi decenni saranno, verosimilmente, caratterizzati dal tentativo costante, da parte delle autocrazie, di rafforzarsi attraverso l’ampliamento della loro sfera d’influenza politica ed economica, al fine di contendere il primato mondiale alle democrazie liberali, in primis gli Stati Uniti. Queste ultime, per contro, saranno costantemente impegnate nell’impedire tale rafforzamento, nel contenere questa espansione.

Cosa vuol dire questo, in concreto? Le autocrazie procederanno nella strada inauguarata dalla Russia: quella di intraprendere campagne militari contro quei Paesi che, come l’Ucraina, si rifiuteranno di invertire la rotta, cioè di intraprendere un percorso a ritroso rispetto alla democratizzazione e di tornare sotto la sfera d’influenza di Mosca o di Pechino. Oppure cercheranno di destabilizzare le democrazie consolidate, come hanno tentato di fare con gli Stati membri dell’Unione Europea, attraverso l’appoggio alle formazioni sovraniste, euroscettiche e critiche rispetto all’atlantismo e al legame con gli Stati Uniti. L’Occidente liberaldemocratico, dal canto suo, dovrà cercare di impedire che questo accada, cioè che le autocrazie espandano la loro influenza, che si rafforzino e che gli “amici di Putin” o “di Xi” assumano la guida dei vari Stati.

Il primo obbiettivo, com’è evidente, si consegue, anzitutto, ingrossando le file della Nato, facendo entrare quanti più Stati possibili e aggiungendo allo scopo difensivo dell’Alleanza quello “contenitivo” e “anti-dispotismo”, rivolto a circoscrivere la minaccia autocratica. In secondo luogo, finanziando e armando le resistenze democratiche – come avviene oggi con l’Ucraina – e promuovendo una nuova stagione di rivoluzioni democratiche nei Paesi autocratici. In terzo luogo, qualora le circostanze lo rendessero necessario, intervenendo direttamente sul campo a sostegno delle democrazie minacciate. Quest’ultima ipotesi è quella che ci spaventa di più, perché – come si dice spesso – vorrebbe dire rischiare un conflitto mondiale, che avrebbe conseguenze catastrofiche, dato che si combatterebbe anche con armi nucleari. Tale prospettiva, però, non deve essere un tabù, né deve intimidirci: se è nel nostro interesse evitare una guerra di tali dimensioni e così distruttiva, lo è ancora di più per la Russia o per la Cina, le quali sono consapevoli che nemmeno assieme potrebbero eguagliare la potenza di fuoco (anche nucleare) dell’Occidente e che sanno di non possedere la nostra stessa tecnologia, che è ciò che fa davvero la differenza al giorno d’oggi.  

Tutto questo, ovviamente, implicherà il riarmo da parte nostra. I “teatrini” come quello dei giorni scorsi, con le polemiche innescate da una parte del Movimento Cinque Stelle sull’aumento della spesa militare al 2% del Pil non potranno e non dovranno più essere ammesse. Perché ci si riarma non con lo scopo di andare in guerra, ma perché avere buoni armamenti, nonché truppe ben addestrate e pronte a intervenire in qualunque momento, è essenziale ai fini della “deterrenza”, concetto ormai dimenticato e che sarebbe bene tornasse in auge. Avere più armi e più soldati, nonché un buon numero di testate nucleari, serve a garantire la pace, perché disincentiva il nemico all’aggressione.

C’è tuttavia un altro aspetto che è necessario considerare. Il contenimento delle autocrazie non va inteso solo dal punto di vista militare e della sicurezza, ma anche da quello dell’economia e dell’informazione. Come è bene che noi ci si abitui all’idea di vivere, almeno per i prossimi anni, in un mondo caratterizzato dalla tensione e dallo scontro tra blocchi geopolitici, allo stesso modo è necessario ripensare le nostre relazioni economico-finanziarie con le realtà ostili. Diciamolo pure, la globalizzazione ci ha inculcato l’idea che le nazioni possano vivere in pace tra loro solo grazie al commercio e al libero scambio. I fatti hanno dimostrato il contrario. Per alcuni Paesi, come la Russia (e come la Cina) l’espansione delle relazioni economiche e il loro consolidamento, è solo una strategia di penetrazione: non ha altra funzione che quella di renderci dipendenti dalle loro esportazioni per renderci ricattabili e, quindi, meno propensi a contrastare i loro progetti di dominio. Le autocrazie, diversamente da noi, non praticano un’economia del benessere, ma un’economia di conquista. La conseguenza di ciò è che l’Occidente deve contrastare tale espansione economica, anzitutto rendendo strutturali le sanzioni contro la Russia e i dazi contro i prodotti cinesi. Pensiamo spesso a quanto le sanzioni contro Mosca potrebbero danneggiare il nostro tessuto produttivo, le nostre aziende: ma raramente pensiamo a quanto le economie autocratiche abbiano beneficiato dei rapporti con l’Occidente; a quanto l’interruzione di tali rapporti potrebbe costare loro; a quanto potremmo depotenziare le loro capacità offensive e ridimensionare la loro influenza privandole di questa opportunità che ha posto le basi per lo sviluppo e il relativo arricchimento di quei Paesi. Fin quando noi commercieremo con le autocrazie, daremo loro il denaro di cui hanno bisogno per finanziare guerre, massacri e persecuzioni.

La libertà economica è inscindibile da quella politica e civile: l’una non può esistere senza le altre due, come un triangolo non esiste se non ha tre lati. Ciò significa anche che, in nome dell’una non possono essere soppresse o esposte a dei rischi le altre. Come sbagliavano i governi socialisti che per estendere la libertà politica dei bisognosi colpivano la libertà economica dei ceti più abbienti; allo stesso modo sarebbe sbagliato pensare di tutelare la libertà economica di alcuni operatori permettendo alle autocrazie di penetrare nelle nostre società democratiche – attentando così alle nostre libertà politiche e civili – o di rafforzarsi per poi usare quella forza contro di noi.

Quanto all’informazione, raramente attribuiamo a essa la giusta importanza. La lotta alla disinformazione, nei media ufficiali come nei social, è più urgente che mai. Sappiamo benissimo che dietro alla diffusione di notizie false c’è spesso il tentativo di influenzare l’opinione pubblica e di sobillarla contro tutto quello che è “istituzionale” o “ufficiale”: dalla politica all’informazione, fino alla scienza. La disinformazione, insomma, è una vera e propria “strategia del caos”, di cui sicuramente si avvantaggiano personaggi come Vladimir Putin. Non è un mistero che il dittatore russo sia riuscito a farsi apprezzare anche in Europa grazie alle campagne mediatiche e “social” che esaltavano le sue presunte virtù di statista con a cuore gli interessi del suo Paese, contro la pretesa debolezza e l’asservimento dei leader europei; la grandezza di una Russia sicura, ordinata e potente contro la corruzione e il disordine delle democrazie occidentali. Poi ci meravigliamo che alcuni politici nostrani abbiano elogiato il tiranno di Mosca, indossato le sue effigi e cercato di esserne dei pallidi e patetici imitatori. Sta di fatto che proprio la disinformazione ha fatto in modo che Putin avesse così tanti amici e riscuotesse così tanta simpatia anche in casa nostra.

Combattere la disinformazione e privare le forze antisistema di quello che per loro è “vento in poppa” è ciò che dovrebbero fare un giornalismo e una politica consapevoli delle loro responsabilità. Non si tratta di imporre delle verità per legge – cosa che sarebbe degna di un regime, non di una democrazia – ma di arginare la proliferazione di notizie strumentali, volte cioè a confondere – non a informare – l’opinione pubblica. Si può e si deve descrivere la realtà secondo più punti di vista: quello che non si ha mai il diritto di fare è negare i fatti o alterarli per finalità ideologiche; istigare le masse facendo leva sulla paura, sulla rabbia o sulla tendenza, sempre troppo diffusa, alla semplificazione e al qualunquismo.

Taluni professionisti delle fake news e della propaganda invocano in loro difesa la libertà d’espressione. Si tratta di un diritto fondamentale per tutte le democrazie liberali, le quali, però, devono anche avere gli “anticorpi” necessari per respingere l’attacco dei germi della tirannide, che non di rado sfruttano proprio quelle garanzie offertegli da questi sistemi per erodere le loro fondamenta. Bisogna ricordare che le autocrazie che l’Occidente dovrà tenere a bada, con le quali sarà chiamato a confrontarsi, si servono anche delle campagne di disinformazione su larga scala come arma per colpire le democrazie e favorire l’ascesa di forze politiche a loro più favorevoli.  Mosca e Pechino  non amano i patrioti di altri Paesi, giacché considerano ogni lembo di terra come una potenziale colonia. Si servono dei movimenti sovranisti del Vecchio Continente per mettere in crisi l’Unione Europea e la stessa Alleanza Atlantica, al fine di rendere i singoli Paesi più deboli e, quindi, facili prede dell’espansionismo russo e cinese. Dinanzi a questo fatto, è inevitabile pensare che il contenimento dell’aggressione autocratica alle democrazie liberali assumerà anche le fattezze di una vera e propria “guerra culturale”: quella per un’informazione corretta, veritiera, non strumentale e, proprio per questo, autenticamente libera.

Gabriele Minotti

(Le opinioni espresse dall’autore sono personali e non rappresentano la posizione dell’Istituto) – Foto Fanpage.it

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